Federazione Impiegati Operai Metallurgici FIOM CGIL di Bergamo ( 1901 - )
Tipologia: Ente
Tipologia ente: Partito politico, organizzazione sindacale
Altre denominazioni: Federazione Italiana Impiegati e Operai Metallurgici di Bergamo
Condizione: privato
Sede: Bergamo, via G. Garibaldi 3
Collegamenti
Profilo storico / Biografia
La storia della FIOM di Bergamo affonda le sue radici alla fine del diciannovesimo secolo, quando – sebbene in maniera piuttosto disomogenea – anche nella provincia orobica, invero ancora in gran parte agricola, si sviluppano i primi movimenti operai.
Se nel 1890 viene fondata l’Unione operaia di Bergamo, nel 1892 è la volta della Lega operaia socialista bergamasca, aderente al Partito dei lavoratori italiani, e immediatamente dopo della Lega di resistenza bergamasca, che sulla scorta dell’esempio milanese prova a riunire i lavoratori metallurgici e a organizzarli in una federazione nazionale. Le fortune di questa iniziativa sono alterne e spesso legate alle ancor più travagliate vicende della Camera del Lavoro di Bergamo, fondata il 21 aprile 1901 e chiusa già tre anni dopo.
Nel frattempo, sempre nel 1901, viene costituita a Livorno la Federazione Italiana fra gli Operai Metallurgici (FIOM). A Bergamo, con l’eccezione di Lovere, nella zona del Sebino, non esistono vere e proprie sezioni della FIOM, tant’è vero che le trattative per il concordato dei fonditori bergamaschi vengono condotte da rappresentanti regionali e nazionali, fino alla firma del 1907. Si tratta dello stesso anno in cui prende le mosse la CGDL (Confederazione Generale del Lavoro) e in cui viene ricostituita la Camera del Lavoro di Bergamo, che tuttavia resta un organismo per lo più nominale e con pochissima capacità di incidere. La fatica sta nelle operazioni di ricomposizione unitaria tra socialisti riformisti e socialisti rivoluzionari, particolarmente invisi gli uni agli altri nella provincia orobica.
Nel 1910 alcuni socialisti rivoluzionari fondano il Fascio operaio di Bergamo e tre anni dopo, sempre su iniziativa di socialisti rivoluzionari, si inaugura l’Unione Sindacale Bergamasca, formata prevalentemente da metallurgici e fonditori; è invece attivo, tra i riformisti, il Circolo socialista. Solo nel 1914, grazie alle comuni posizioni antimilitariste, si arriva a un effettivo riavvicinamento, con la fondazione del Comitato operaio. Alla vigilia di Natale dello stesso anno, torna operativa la Camera del Lavoro, la cui ala rivoluzionaria è rappresentata proprio dai fonditori, oltre che dai ferrovieri.
La Camera del Lavoro, capace di raccogliere le istanze dei metallurgici, si spende diffusamente sulla “questione sociale”. Prende avvio un periodo di avanzamento delle lotte sindacali, che culmineranno con la conquista delle 8 ore di lavoro nel 1919.
Se nel giugno del 1916, durante il Congresso nazionale straordinario della FIOM, il segretario Bruno Buozzi rende noti i numeri degli iscritti (5.000 in Lombardia, 17.000 in Italia), evidenziando così la progressiva forza che l’organizzazione va acquisendo, a Bergamo proseguono le difficoltà nella costruzione dell’unità. La Camera del Lavoro risponde freddamente alla proposta dell’Unione Sindacale che nel 1918 chiede di riunire i metallurgici di Bergamo sotto un’unica organizzazione; nel dicembre dello stesso anno, poi, la riunione indetta in via Zambonate per fare arrivare a maturazione questo processo di ricomposizione unitaria si rivela poco più che un buon proposito (1).
Un miglioramento tangibile nelle relazioni tra le varie componenti politiche che integrano la Camera del Lavoro si produce il 13 febbraio 1921 con l’elezione della Commissione esecutiva della Camera del Lavoro stessa, frutto dell’accordo tra socialisti unitari, comunisti, riformisti e anarchici. Ma la situazione politica in Italia sta per mutare e già il corteo che sfila il 1 maggio per le vie cittadine viene preso di mira dai fascisti, che sparano sui lavoratori; l’anno successivo la Festa del lavoro si svolgerà sotto il diretto controllo delle squadre di Mussolini. Il 15 gennaio 1923 la sezione della FIOM di Lovere viene assalita dai fascisti, che picchiano i dirigenti sindacali presenti e distruggono l’archivio. Un gesto non isolato ma simbolico del lungo periodo di clandestinità che inizia con la dittatura, in cui però i fili tessuti in questi anni, pur controversi e intricati, non si interromperanno: molti dei nomi dei primi organizzatori sindacali si ritroveranno tra quelli dei partigiani combattenti e degli antifascisti militanti.
L’attività sindacale riprende nel marzo del 1944 con i famosi scioperi contro il fascismo e la guerra. I metalmeccanici si distinguono per l’adesione alle manifestazioni soprattutto all’acciaieria Dalmine e alla Caproni di Ponte San Pietro. Senza il rilievo assunto altrove, si sciopera però anche all’ILVA di Lovere, dove si tenta anche un sabotaggio agli impianti. Sono gli embrioni del processo di riorganizzazione operaia che prende forma dopo il secondo conflitto mondiale (2).
La ricostituzione del sindacato risale al giugno del 1944, quando si riuniscono le principali correnti ideologiche e culturali: comunista, socialista, democratica-cristiana. Quest’ultima è prevalente a Bergamo. Nel dicembre del 1946, invece, si tiene il IX Congresso della FIOM, il primo unitario. L’organizzazione cambia nome: da Federazione Italiana Operai Metallurgici passa a Federazione Italiana Impiegati e Operai Metallurgici, quasi a voler sottolineare uno dei primi grandi obiettivi da perseguire: il contratto unico operai – impiegati (3).
Nell’ambito della Camera del Lavoro di Bergamo, la categoria dei metallurgici si dimostra subito come la «culturalmente e politicamente più omogenea, nonché maggiormente propensa all’esercizio del conflitto» (4).
La scissione del 1948 rischia di falcidiare l’organizzazione, vista la forza del sindacato cattolico. Tuttavia, se prima della scissione stessa i lavoratori metalmeccanici organizzati sindacalmente erano 15.000, nel 1949 la FIOM, da sola, conta 10.170 iscritti.
Le prime grandi battaglie degli anni ‘50 sono sul rinnovo contrattuale, che impegna molto e con esiti discreti; spesso insoddisfacenti o condotte con modalità troppo diverse le une dalle altre sono invece le singole vertenze di fabbrica. Nel frattempo, anche per risolvere questa difficoltà, la FIOM cerca di enfatizzare gli aspetti partecipativi della vita di fabbrica, chiedendo a gran voce il decentramento della contrattazione su uno dei punti più rilevanti delle trattative ovvero la perequazione delle quote di contingenza da adeguare al costo della vita. La FIM – CISL non vede di buon occhio questa proposta e tende ad ascrivere alla sola Commissione interna (l’organismo di rappresentanza sindacale in fabbrica) il compito di incidere sullo sviluppo tecnico della fabbrica in ordine al controllo e alla gestione dei mezzi di produzione. Non trova grandi sponde, insomma, il tentativo della FIOM di ridefinire le dinamiche produttive sia a livello nazionale (arrivando alla attuazione del Piano del lavoro ispirato da Di Vittorio) sia a livello locale (con assemblee di produzione). Tuttavia, la proposta di ampliare la partecipazione democratica nelle scelte fondanti l’organizzazione produttiva rappresenta, pur nel fallimento, una modalità concreta per rispondere al mutamento delle forme organizzative del lavoro e di automazione, oltre ad avere la funzione di compattare la base della FIOM su un obiettivo e una visione comune.
Guidata da Giovanni “Nino” Archetti, negli anni Cinquanta la FIOM bergamasca tenta dunque un avanzamento delle forme di rappresentanza e organizzazione negli stabilimenti e lo fa istituendo il Comitato Sindacale di Fabbrica, che non accende tuttavia gli entusiasmi del Nazionale, più orientato a ricondurre le vertenze locali al quadro generale delle attività dell’organizzazione. Suscita clamori e sorprende per la radicalità del conflitto prodotto l’iniziativa che la FIOM porta avanti alla Dalmine tra il 1953 e il 1954, quando – nell’ambito delle rivendicazioni per l’aumento generalizzato dei salari (conglobamento nella paga base dell’indennità di contingenza e di altri elementi retributivi, allo scopo di perequare le condizioni salariali tra città e provincia) – si verifica una lotta sul premio di produzione, escluso dalle erogazioni previste dall’azienda. La protesta operaia attraversa minacce di serrata e scontri di piazza, culminando nell’occupazione della fabbrica e nell’autogestione della produzione per una settimana. Una mobilitazione eccezionale che tocca picchi di tensione e costringe il movimento operaio ad arretrare di fronte alla particolare aggressività repressiva della classe imprenditoriale locale, oltre che all’ostilità di un contesto sociale e culturale vocato all’etica del lavoro e della produzione tout court. Ciò non toglie che la lunga e difficile vertenza si chiuda con la conquista di buoni risultati in materia di aumenti legati alle diverse forme di salario a rendimento.
Nonostante l’esito complessivamente positivo della vertenza e la crescente fiducia attorno alla FIOM locale, la situazione di favore non si traduce in un aumento del tesseramento né in una più strutturata forma di organizzazione. Lo stesso segretario Archetti attribuisce queste carenze alla scarsa funzionalità del Comitato direttivo, delle commissioni di lavoro, delle sezioni e delle leghe, così come all’insufficiente attività dei comitati sindacali di fabbrica e alla scarsa attività democratica dei componenti delle commissioni interne. L’insoddisfacente educazione politico-sindacale degli attivisti e dei giovani militanti è una delle preoccupazioni più urgenti di questi anni. La difficoltà a coniugare il momento della rivendicazione (elaborazione del contenuto) e quello della costruzione di una presenza sindacale sufficientemente organizzata all’interno della fabbrica (le forme dell’azione sindacale) sta alla base della sconfitta nelle elezioni per la rappresentanza interna alla Dalmine del 1956, quando la FIOM si presenta già isolata dopo il rifiuto di firmare un ulteriore accordo, sempre su premio di produzione e altre voci della parte variabile del salario, che CISL e UIL costruiscono con la direzione aziendale. Si tratta di una sconfitta pesante che segna l’arretramento della conflittualità operaia, anche in ragione di interventi di rappresaglia e intimidazioni subite dai lavoratori più attivi nella FIOM, molti dei quali vengono “confinati” nello stabilimento di Sabbio o sono vittime di ingiustizie (mancati passaggi di categoria) e di un sempre più marcato “collateralismo” della FIM – CISL.
Il miracolo economico degli anni Sessanta significa, a Bergamo, un discreto aumento della produttività delle aziende meccaniche ed elettromeccaniche. Un aumento presto destinato a ridursi o, in ogni caso, a seguire trend irregolari. Nella prima parte del decennio sono proprio i meccanici a spendersi per le vertenze del rinnovo del contratto nazionale, soprattutto durante i primi mesi del 1963. Ma è negli anni successivi che le forme di mobilitazione operaia diventano più frequenti e intense: la compressione dei diritti sindacali in fabbrica, causata dall’intensificazione dei ritmi di lavoro, spinge le organizzazioni operaie a interrogarsi sul modello di sviluppo fondato sulla piena libertà delle imprese di razionalizzare il lavoro in fabbrica. Il contratto collettivo nazionale del 1959 viene in soccorso al sindacato e in particolare alla FIOM, che può finalmente tentare di operare sul piano pratico nell’alveo della contrattazione decentrata, soprattutto grazie all’ingresso nell’arena contrattuale dell’Intersind, l’associazione delle imprese IRI.
Lunghi dibattiti interni alla CGIL e alla FIOM stessa sfociano nell’elaborazione di piattaforme che includono l’articolazione della contrattazione aziendale per settore in materia di premi collegati al rendimento, di cottimi, di aggiornamento delle qualifiche, di riduzione dell’orario di lavoro, di contrattazione degli organici e dei livelli occupazionali come strumento di controllo dello sviluppo tecnologico e di indirizzo degli investimenti, oltre che le forme della presenza del sindacato in fabbrica (attraverso, per esempio, la costituzione delle sezioni sindacali aziendali). L’iniziativa spiazza gli industriali, che cedono alle pressioni delle piazze (anche a quella di Bergamo) firmando il contratto del 1963, quello che di fatto garantisce lo spostamento delle questioni contrattuali sopra elencate alla dimensione aziendale. All’avanzamento, anche salariale, di questi anni segue però un riflusso, sancito dal contratto del 1966 e dalla difficoltà nella gestione delle relazioni industriali.
Alla Dalmine, per esempio, la FIOM non riesce a contrastare l’applicazione della job evaluation, un sistema retributivo basato su un metodo presuntamente oggettivo di classificazione del lavoro, attraverso l’accertamento del valore relativo delle posizioni di lavoro da porre alla base della struttura retributiva: “paghe di classe”, insomma, che tendono a gerarchizzare i posti di lavoro e a impedire la progressione economica per le posizioni più basse.
Nel 1967, alla vigilia dell’autunno caldo, un’altra sconfitta travolge l’organizzazione: alla Magrini di Bergamo, azienda termo-elettromeccanica che negli anni precedenti si distingue per la capacità di aggregazione e di partecipazione alle mobilitazioni sindacali, la direzione aziendale comunica il licenziamento di 117 lavoratori (92 impiegati e 25 operai). La risposta unitaria delle organizzazioni sindacali, che raccolgono ampia solidarietà anche dal territorio, è puramente autodifensiva e, a lungo termine, logorante per gli operai. Il sindacato cede dopo dure settimane di resistenza, registrando un’ulteriore beffa, ovvero il licenziamento di un altro operaio: Isacco Maffioletti, componente della Commissione Interna per la FIOM, a cui l’azienda dà il ben servito come rappresaglia per il suo impegno. I risvolti psicologici della sconfitta sono molto gravi: lo sciopero per chiedere il reintegro di Maffioletti si svolge nella quasi totale indifferenza e una delle aziende più sindacalizzate di tutta la bergamasca vede neutralizzate le sue iniziative sindacali.
Da queste due pesanti sconfitte la FIOM di Bergamo trae però le forze per reagire. La supportano nella ripresa delle mobilitazioni operaie i cambiamenti nel clima generale del paese: il secondo biennio rosso (1968 – 1969) segna l’avanzamento delle istanze operaie (5). Le manifestazioni di piazza per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici contraddistinguono tanti mesi “caldi”, come quelli dell’autunno del 1969, che portano alla ratifica dell’accordo.
Le 200 ore di sciopero dei metalmeccanici portano agli aumenti uguali per tutti e alla riduzione dell’orario di lavoro. Nel 1970 viene emanata la Legge 300, il famoso Statuto dei Lavoratori che fa tornare attivamente il sindacato nelle fabbriche. Cambiano in maniera netta i rapporti di forza nei singoli stabilimenti e ciò accade anche grazie a un nuovo organismo di rappresentanza, il Consiglio di Fabbrica. All’inizio convive con le vecchie commissioni interne, ma piano piano vi si sostituisce per la sua capacità di intercettare i bisogni concreti dei lavoratori. I delegati sindacali, moltiplicati rispetto alla fase delle commissioni, rappresentano infatti un gruppo omogeneo (un insieme di lavoratori sottoposti alle medesime condizioni di nocività) e vengono eletti da tutti i lavoratori su lista bianca, prescindendo dalle sigle sindacali per le quali si presentano. I Consigli diventano la premessa per l’unità sindacale, raggiunta a Bergamo nel 1970, ben due anni prima della ratifica ufficiale a livello nazionale: FIOM – CGIL, FIM – CISL e UILM – UIL si riuniscono nella Federazione del Lavoratori Metalmeccanici (FLM). Ne nasce una stagione nuova, guidata a Bergamo sempre da Archetti, e capace di ampliare il raggio di azione del sindacato, non più ristretto alle questioni più strettamente salariali, ma esteso a temi che si intrecciano con le modalità di organizzazione del lavoro e con la tutela della salute in fabbrica.
Questo processo di trasformazione interna al sindacato non è privo di polemiche e difficoltà, ma si afferma anche grazie alla tenacia di chi fin da principio lo appoggia, soprattutto dei tanti nuovi giovani operai che non si riconoscono nelle diverse sigle sindacali e chiedono l’unità e la forza necessarie per conquistare più diritti. Sono in effetti gli anni di vertenze storiche, in cui il sindacato riesce – all’interno delle fabbriche – ad entrare nel merito di situazioni che fino a poco prima era impensabile gli competessero. Basti pensare alla conquista della mensa, avvenuta in Dalmine proprio negli anni Sessanta per mettere fine a condizioni in cui ci si alimentava penosamente, quasi di sottecchi; è anche una fase, quella degli anni Settanta, in cui l’esempio delle poche grandi fabbriche presenti sul territorio si ripercuote sulla vita delle aziende più piccole e periferiche. Alla Cititalia e alla Faema di Zingonia si raggiungono obiettivi analoghi a quelli conquistati alla Dalmine. E la mensa non era solo il luogo per esercitare il diritto a un pasto caldo durante la pausa dal faticoso lavoro negli stabilimenti, ma si affermava come lo spazio per improvvisare assemblee e produrre informazione, quando non socializzazione e aggregazione, come nell’esempio della SAME di Treviglio, azienda che sarebbe stata all’avanguardia di altri processi di rinnovamento negli anni a seguire.
I Consigli di Fabbrica sono alla testa di battaglie fondamentali sull’ambiente di lavoro, come per esempio l’eliminazione della monetizzazione del rischio alla Dalmine. Quest’azione del sindacato e sulla quale la FIOM di Bergamo è particolarmente sensibile anche per l’alto numero di infortuni e morti sul lavoro registrato abitualmente, va di pari passo con la presa di coscienza da parte dei lavoratori, finalmente più attenti alla sicurezza personale e collettiva negli stabilimenti. L’abbandono della monetizzazione in favore di maggiori garanzie (turnazione ai forni delle fonderie, uso della tecnologia per aerare adeguatamente i locali, eliminazione di sostanze tossiche normalmente utilizzate nei processi produttivi) coinvolge i consigli di molte fabbriche, dall’ILVA di Lovere alla Philco di Ponte San Pietro, fino alla Cromoplastica di Zingonia, dove si cromano materiali plastici e dove si ottiene che la supervisione dei bagni galvanici venga deputata a un numero assai limitato di operaie e operai che agiscono secondo frequenti turnazioni. Sono piccoli esempi di una trasformazione decisiva per migliorare le condizioni di lavoro, e dunque di vita, degli operai.
A questa attenzione per la salute dei lavoratori, la FLM – ma in particolare la FIOM – affianca una battaglia per la revisione dei tempi della produzione. Si inizia a rifiutare il lavoro nocivo e alienante e a immaginare percorsi per emancipare il lavoro, renderlo più “umano”. Il delegato della FIOM Pasquale Poma ottiene il riposo compensativo alla Dalmine, ovvero la trasformazione del pagamento aggiuntivo delle prestazioni lavorative effettuate in giorni di festa in giorni di riposo. Una misura banale che in realtà apre la strada a nuove assunzioni, generando così posti di lavoro, e garantisce un maggiore equilibrio tra tempi di vita e tempi di lavoro. Altrove si lavora alacremente per abolire il cottimo. Alla Philco e alle Trafilerie Bergamasche (dove mai si era registrata una vittoria così netta del sindacato) l’iniziativa della FIOM permette addirittura di redistribuire la quota destinata al cottimo individuale anche ai lavoratori che non stanno in catena di montaggio. Misure che aumentano l’uguaglianza tra categorie di lavoratori. Come alla SACE di Bergamo, dove alla metà degli anni Settanta si stabilisce che il premio di produzione – la cui abolizione era stata prevista dalla direzione aziendale perché troppo oneroso – debba muoversi in concomitanza all’aumento del salario stabilito dai contratti nazionali, ma secondo un criterio di proporzionalità inversa, ovvero attribuendo un aumento maggiore agli operai di categorie inferiori.
Sono anche gli anni dei Consigli di Zona, organismi che intendono collegare le istanze avanzate in fabbrica con quelle del territorio, la cui azione frutta qualche importante risultato, per esempio nell’organizzazione del trasporto pubblico per i pendolari.
La svolta che si ritiene epocale è però quella sull’inquadramento unico, nuovamente promosso dalla FIOM e sperimentato per la prima volta a livello nazionale alla Dalmine. Si tratta di un complesso sistema di assegnazione dei lavoratori a categorie non più statiche e non più cristallizzate sulla divisione tra lavoro impiegatizio e lavoro manuale, ma caratterizzate da una valutazione concordata con il sindacato e basata sulle potenzialità del lavoratore e della mansione svolta al fine di ridurre le forbici salariali e garantire la possibilità di ascesa da una categoria all’altra. A questo lavoro, in cui di fatto il sindacato si affianca al padronato in una prerogativa che fino a quel momento era stata solo dei dirigenti aziendali, si aggiunge l’abolizione dei superminimi (quote premiali arbitrariamente assegnate ad alcuni lavoratori), ridistribuiti collettivamente.
Per il raggiungimento dell’inquadramento unico, sperimentato nelle aziende e diventato parte del contratto collettivo nazionale nel 1973, servono decine e decine di ore di sciopero a cui i lavoratori bergamaschi partecipano in buon numero, con punte di coinvolgimento molto alte in certe realtà di fabbrica, a testimonianza dell’importanza che la vicenda ha per le operaie e per gli operai orobici. A proposito di accordi “storici” non si può non citare quello firmato nel 1978 – l’anno prima la guida della FIOM bergamasca passa da Archetti a Giorgio Faccardi – alla SAME di Treviglio, già preceduto da una analoga misura presa alla Magrini di Bergamo qualche anno prima.
Il Consiglio di Fabbrica della SAME non solo riesce a impedire che l’azienda proceda unilateralmente a modificare l’impianto produttivo dell’impresa – scelta che avrebbe aumentato i tempi di lavoro -, ma con 100 ore di sciopero arriva a gestire una parte dei processi decisionali interni alla fabbrica. Si firma infatti un accordo secondo il quale ogni modifica relativa all’assetto delle linee di montaggio può essere applicata solo «qualora sulla stessa si convenga» tra le parti.
Il sindacato incide quindi sui tempi della produzione e, pertanto, sulle condizioni di lavoro e i livelli occupazionali (a questo proposito va menzionata la storica battaglia del 1975 alla Philco, culminata con l’occupazione della fabbrica per 73 giorni e con un accordo che limitava i licenziamenti previsti in precedenza, garantendo importanti ammortizzatori sociali ai lavoratori in uscita). Sono anni in cui l’idea di poter conquistare il “potere” all’interno dell’azienda fa il paio con le tante rivendicazioni dei movimenti giovanili che emergono sul territorio. Anzi, in una fase di quasi conclamato riflusso di questi movimenti, il movimento operaio bergamasco riesce davvero, almeno in certi contesti lavorativi, a “riprendersi il proprio tempo”.
Parallelamente, molti sindacalisti della FIOM si vedono costretti a gestire il difficile riverbero che la lotta armata ha sulle vicende operaie. Soprattutto dal ferimento del dirigente aziendale della Philco Herker nel 1976, le accuse nei confronti delle avanguardie operaie si fanno frequenti e pesanti. Il sindacato adotta una radicale opposizione alle degenerazioni della lotta armata, ma tra gli operai rimane in alcuni momenti una sorta di contraddizione tra giustificazionismo e condanna. La FIOM deve spesso ribadire la propria contrarietà agli atti di violenza e in alcuni casi i suoi delegati pagano con minacce e intimidazioni le loro posizioni “riformiste”.
Gli anni Settanta, così permeati dalle nuove culture che fanno del primato della soggettività il loro nodo centrale, sono infine il periodo in cui si afferma, anche nel sindacato, il pensiero femminile e femminista: le donne, che fondano anche un Coordinamento interno alla FIOM e quindi alla FLM, acquisiscono ruoli dirigenziali nel sindacato e interpretano bisogni che fino a quel momento sono rimasti oscurati da altre priorità: la tutela della salute della donna sul luogo di lavoro, la parità salariale e le pari opportunità (con il lungo dibattito sulle azioni positive per realizzarle, che attraversa gli anni Ottanta fino ad arrivare a inizio anni Novanta), la conciliazione tra vita domestica e lavoro sono i temi che vengono posti all’attenzione delle gerarchie sindacali e che si sviscerano con dovizia di approfondimenti nei tanti corsi e nelle tante ricerche promosse. Emerge così un modo più consapevole di guardare al lavoro, che si aggiunge al patrimonio culturale della FIOM e le consente di fare un ulteriore balzo in avanti.
Balzo che però viene immediatamente interrotto dal contesto degli anni Ottanta, molto più complicati da gestire anche per le vicissitudini politiche nazionali e locali.
Il passaggio da «sfruttati a produttori» (cit. Bruno Trentin) modifica i rapporti tra padronato e classe operaia e consente un pieno riconoscimento degli organismi sindacali nel mondo del lavoro, ma quel plus di potere acquisito dall’autunno caldo alla fine degli anni Settanta si traduce presto nella reazione del padronato e nell’incapacità di gestire l’innovazione da parte del sindacato.
La FIOM si interroga sul proprio ruolo, ma resta schiacciata dai cambiamenti tecnologici, dal decentramento produttivo e anche dal cambiamento dei quadri politici. La FIOM fatica a mettere in pratica le intelligenze e le capacità di incidere maturate negli anni, ripiegandosi su una funzionalità legata all’erogazione di servizi più che su attive politiche di avanzamento dei diritti. Ciò vale anche per la CGIL in generale, che anzi viene spesso incalzata sul tema proprio dalla FIOM locale. Si smarrisce il senso di combattività e anche i legami con FIM e UILM si incrinano irrimediabilmente. Le organizzazioni si rifugiano ognuna nel proprio guscio, guidate dal bisogno di parlare con i propri lavoratori. Fino alla rottura del biennio 1984 – 1985 sulla scala mobile.
A Bergamo la fine dell’unità sindacale è per molti lavoratori un vero e proprio trauma. Giuseppe “Bepi” Pezzotta, subentrato a Faccardi nel 1981 e segretario della FIOM di Bergamo fino al 1994, ricorda che tuttavia la spaccatura è stata gestita con “buona dignità”, evitando danni per l’organizzazione. Resta il fatto che in alcune realtà di fabbrica si sceglie di proseguire con il tesseramento alla FLM, come alla Rumi di Montello, dove – nel ricordo del funzionario Aldo Valle – molti operai si sono poi rifiutati di iscriversi al sindacato, non riconoscendosi in sigle diverse da quella unitaria. E resta, in molti militanti, la sensazione che si assista a un crollo, alla fine della capacità di contare che per tutti gli anni Settanta ha caratterizzato le relazioni tra industriali e operai.
Si apre così una nuova fase, quella dell’attacco neoliberista ai diritti dei lavoratori, quello della fine dell’Unione Sovietica e anche dei partiti tradizionali, compreso il PCI, con cui la FIOM e la CGIL hanno mantenuto un rapporto piuttosto stretto, la famosa “cinghia di trasmissione”. Ne scaturiscono numerosi processi di riorganizzazione interna alla Federazione.
Nel ruolo di segretario, Marcello Gibellini è succeduto a Pezzotta nel 1994, mentre nel 2000 l’incarico è passato a Martino Signori. Successivamente, nel 2006, la guida della FIOM orobica è stata appannaggio di Mirco Rota, che nel 2010 ha lasciato il posto a Eugenio Borella. L’attuale segretario è Andrea Agazzi, nominato nel 2016.
La cultura aziendalista, che conquista molti anche a sinistra, e la frammentazione del lavoro rendono difficile il ruolo della FIOM, che comunque continua a fare della permeabilità e della capacità di ascolto e di relazione con i lavoratori il suo principale lavoro.
Una storia tutta da studiare, quella della FIOM orobica dalla metà degli anni Ottanta a oggi. Una storia che continua nel solco delle parole di Claudio Sabattini, compianto segretario generale dell’organizzazione nazionale, secondo il quale «la FIOM di Bergamo rappresenta con chiarezza quella tendenza costitutiva della FIOM di essere categoria e contemporaneamente di essere protagonista nella costruzione di un progetto generale di trasformazione della realtà, dato che forse è il senso di una cultura che fa del lavoro dipendente l’asse portante di qualsiasi civilizzazione del paese, di qualsiasi progresso della società» (6).
Note
(1) Per questa prima fase della storia della FIOM si veda Buttarelli, 1998.
(2) http://www.CGIL.bergamo.it/index.php/chi-siamo/la-storia-della-CGIL-di-bergamo.
(3) https://www.FIOM -CGIL.it/net/index.php/1946-ix-congresso-nazionale.
(4) Ricciardi, 2001, riferimento anche per la parte a seguire.
(5) Per la ricostruzione di questa parte cfr. Villa, 2017.
(6) Introduzione a Ricciardi, 2001.
BIBLIOGRAFIA
A. Buttarelli, Metallurgici, meccanici, affini: per una storia della FIOM di Bergamo dalle origini all’avvento del fascismo, Bergamo, Il Filo di Arianna, 1998
F. Ricciardi, Lavoro, conflitto, istituzioni. La FIOM di Bergamo dal dopoguerra all’autunno caldo, Bergamo, Associazione Editoriale Il Filo di Arianna, 2001
R. Villa, Percorsi di classe. I militanti della FIOM di Bergamo dai Consigli di fabbrica alla scala mobile, Palermo, New Digital Frontiers – SISLAV, 2017
Complessi archivistici
Compilatori
- Prima redazione: Villa, Roberto (storico)
- Revisione: Dilda, Giovanni Luca (archivista)
Link risorsa: http://lombardiarchivi.servizirl.it/creators/8750