Collegio dei notai di Bergamo ( metà sec. XIII - 1800 agosto 26 Data secondo il calendario rivoluzionario francese: 8 fruttidoro anno VIII )

Tipologia: Ente

Tipologia ente: Ordine professionale, associazione di categoria

Profilo storico / Biografia

1. Istituzione e regole per l’aggregazione

Gli statuti databili al 1264, pubblicati da Giuseppe Scarazzini, costituiscono la fonte più antica sull’esistenza in Bergamo del Collegio dei notai e al tempo stesso l’immagine più completa della sua organizzazione interna e dei suoi rapporti con il Comune che, come si è visto, gli riconobbe costantemente, anche nei secoli successivi, funzioni di primo piano nell’abilitazione di nuovi notai e nella custodia dei preziosi registri su cui venivano inscritti i signa tabellionatus.
All’inizio del ‘400 appaiono tracce della concentrazione nello stesso organismo delle figure professionali del notaio e del procuratore e permangono fino alla metà del secolo per scomparire dapprima dal formulario delle iscrizioni dei notai aprobati e più tardi dalle fonti normative. Ancora elencato nel 1491 tra i paratici cittadini tenuti a partecipare alle maggiori festività religiose, il Collegio dei notai e procuratori fu sciolto nello stesso anno per l’istituzione di un nuovo Collegio dei notai minuziosamente regolato da statuti inseriti in quelli comunali. […] Il 4 dicembre 1491 il Consiglio grande della magnifica Comunità, attuando quanto disposto dagli statuti, nominava un primo gruppo di 72 notai, scelti tra coloro che esercitavano l’attività in città o nei borghi, quale nucleo costitutivo del Collegio cui veniva conferita “potestas et baylia de coetero collegiari volentes reliquos collegiandi iuxta et secundum formam statutorum et ordinamentorum praedictorum noviter reformatorum communis Bergomi”
La motivazione addotta per il provvedimento, “ut notariis ipsis sine norma et ordine existentibus debita regula detur”, fa ritenere che la categoria avesse risentito negativamente dell’intreccio con l’attività dei procuratori (che non a caso, in seguito, dopo aver prodotto i gravi disordini additati con preoccupata consapevolezza dai rettori, verrà dichiarata incompatibile con quella di notaio) e che per il lungo lasso di tempo trascorso e le numerose riforme parziali introdotte dalla normativa comunale gli statuti notarili duecenteschi fossero ormai largamente disattesi e comunque inadeguati ai tempi. Un ulteriore intervento, motivato da istanze moralizzatrici e di elevazione del livello professionale del ceto notarile, si rese necessario nella seconda metà del XVI secolo, quando la situazione di negligenza nell’esercizio del notariato e di disordine organizzativo della categoria doveva essere giunta ad un livello analogo, se non peggiore, rispetto a quello di fine 400, sicché il Collegio […] predispose il testo degli Ordines notariorum Collegio pertinentes discussi ed approvati dal Consiglio maggiore della città nella seduta del 12 febbraio 1570. Dopo integrazioni approvate dallo stesso Consiglio nel 1572, la materia venne ripresa in esame per impulso del podestà Giacomo Contarini e finalmente nel 1578 il nunzio a Venezia Ercole Tasso fu incaricato di sottoporre quei capitoli al Senato che li confermò con diploma del 22 maggio 1579.
Accanto all’attenzione per il delicatissimo problema della conservazione delle scritture, specie dei notai defunti, e per le esigenze di moralità e di rispetto del codice deontologico professionale, è possibile constatare, in questi e nei successivi interventi normativi, una crescente selettività dei requisiti per l’ammissione al Collegio. Pochi e assai modesti negli statuti del XIII secolo (età maggiore di diciotto anni, status di persona libera, incensurata e laica), nel 1491 essi vengono modificati in senso più restrittivo portando l’età minima a ventiquattro anni ed esigendo non solo il conseguimento dell’approbatio e relativo deposito del segno di tabellionato, ma anche un biennio di attività presso gli uffici comunali.
Gli ordini promulgati nel 1579, alla rubrica “De incumbentiis Collegio aggregari volentium”, introducono per la prima volta i requisiti della cittadinanza originaria, della residenza continuativa in città per almeno trent’anni da parte del candidato e dei suoi avi e dell’averne sostenuto i carichi fiscali (con onere di prova). Si esige inoltre che né il candidato né suo padre abbiano mai esercitato “arte mecanica” o siano stati accusati di falso o altro reato infamante, che non sia dedito a bestemmie, lussuria, usura, gozzoviglie, ubriachezza ed infine che sia sufficientemente colto ed abbia un’esperienza di almeno cinque anni “in foro contentioso” e nella stesura di istrumenti pubblici ed atti “forensi”.
Le referenze vengono controllate dai deputati ad assumendas informationes sorteggiati all’interno del Collegio, cui riferiscono l’esito delle loro indagini; testimonianze ed attestazioni prodotte vengono trascritte dal cancelliere in un apposito registro, mentre le capacità tecnico-professionali vengono vagliate nel corso di un esame orale condotto dai consoli davanti al Collegio riunito in seduta pubblica.
L’intera procedura, col titolo “Ordines pro aggregatione servandi”, fu accuratamente definita nella seduta del 28 dicembre 1595 in cui peraltro si deliberò di abrogare i precedenti ordini del 13 dicembre 1575 perché in talune parti discrepanti rispetto alle norme emanate dal Comune e dalla Dominante e causa di frequentissime controversie ed altri inconvenienti.
In tal sede, ad ulteriore precisazione di quanto disposto nel 1579, si stabili che le richieste di aggregazione sarebbero state d’ora in poi esaminate solo una volta ogni due anni, nel mese di dicembre, previa affissione di un avviso sulle porte del palazzo comunale e si definirono le modalità di svolgimento dell’esame.
Dopo la votazione sul possesso dei requisiti personali che ne seguiva la discussione in aula (quorum richiesto per l’esito favorevole: due terzi dei presenti), la prova veniva condotta da due notai sorteggiati tra i consoli ed i consiglieri, per verificare se il candidato fosse sufficientemente literatus ossia se avesse adeguata conoscenza della lingua latina e della grammatica”. Domande e risposte dovevano essere pro- nunciate a voce alta perché tutti le potessero udire e l’esame si intendeva superato se otteneva il giudizio positivo di almeno due terzi dei presenti. […] La mancata introduzione di una prova scritta ed il fatto che non ci si preoccupasse di definire accuratamente i contenuti dell’esame lasciando invece ai due esaminatori ampia discrezionalità nell’interrogare […] suggeriscono l’ipotesi che i requisiti culturali fossero assai meno rilevanti rispetto agli altri […].
A questo proposito è ben documentato il tentativo di serrata condotto nel XVIII secolo facendo leva proprio sui requisiti della cittadinanza e del non esercizio di arte vile. […]
Rifondato nel 1491 con un nucleo iniziale di 72 membri, superato il ciclo delle epidemie pestilenziali che caratterizzarono la prima metà del ‘500, il Collegio conobbe oltre un ventennio di crescita costante, passando a 77 membri nel 1541, 85 nel 1543, 92 nel 1544, 100 nel 1545, 102 nel 1548, 114 nel 1555, 117 nel 1560, 118 nel 1563, per registrare invece un vero crollo a fine secolo.
Nel 1596 gli iscritti viventi erano 56 e 51 nel 1616. La peste che sconvolse la Bergamasca tra il 1629 ed il 1630 lasciò in vita solo 22 notai collegiati ma anche in seguito il loro numero non riprese mai più quota, attestandosi attorno a una media di circa 43 unità […].
È dunque evidente che qualcosa era intervenuto a far sì che il saldo tra decessi rinunce e nuove iscrizioni divenisse costantemente negativo e che la volontà corporativa di selezionare gli ingressi aveva contribuito all’insorgere di difficoltà che nel XVIII secolo si fanno particolarmente gravi. […]
Si decideva perciò di chiedere alle magistrature competenti l’autorizzazione a creare un numero sufficiente di nuovi notai veneta auctoritate […]. L’iniziativa si arenò, come era prevedibile vista la forzatura che si voleva introdurre nella creazione dei notai sia col privilegiare le persone “gradite” al Collegio in quanto dotate dei requisiti per l’iscrizione ad esso, sia probabilmente col derogare alle disposizioni emanate tra il 1758 ed il 1761 dai Conservatori ed esecutori delle leggi sul numero massimo dei notai attivi tanto in Bergamo, “borghi, sottoborghi e Corpi santi”, quanto nel suo “territorio e valli tutte” rispettivamente fissato a 84 ed a 200. Cionondimeno nessuno sforzo fu fatto per rivitalizzare dall’interno l’antica istituzione, ma anzi ci si irrigidì nell’atteggiamento di chiusura a nuovi apporti sicché il Capitolario contenente gli ordini e requisiti per l’aggregazione all’Almo Collegio approvato nel 1789 non solo ribadiva molte delle precedenti disposizioni, ma ne introduceva alcune ulteriormente restrittive. […]
Nel frattempo la vita del Collegio si era trascinata per tutta la seconda metà del 700 in maniera sempre più asfittica, ridotta quasi al solo espletamento degli atti di ordinaria amministrazione imposti dalle norme statutarie, ostacolato per di più dalla frequentissima necessità di sciogliere ed aggiornare a nuova data le riunioni per mancanza di numero legale. Esiguità numerica degli iscritti, litigiosità interna e disaffezione andavano di pari passo tanto che nel marzo del 1745 si era costretti a chiedere al capitano veneto di intervenire con un’ingiunzione agli iscritti perché si decidessero ad accogliere positivamente le convocazioni!
Sciolto dalla Repubblica Bergamasca nel 1797 (come tutte le corporazioni e le arti), il Collegio veniva autorizzato a riprendere le proprie funzioni dopo l’ingresso vittorioso delle truppe austro-russe con nota 18 giugno 1799 del Governo interinale della città, che il 2 luglio successivo confermava nei loro ruoli tutti i membri del Collegio in carica nel 1796.
La restaurata legalità prerivoluzionaria sarebbe però durata poco perché il Collegio dei notai veniva definitivamente soppresso dalla Repubblica Cisalpina con decreto 8 fruttidoro anno VIII (26 agosto 1800). L’ultimo suo avviso a stampa a noi noto (relativo alla revisione annuale dei protocolli notarili) risale al 29 aprile di quello stesso anno, mentre le sedute della Banca (come era denominato il suo consiglio di presidenza) si erano interrotte fin dal 14 luglio 1799.

2. Organizzazione interna

Nell’assetto conferito al Collegio dagli statuti comunali del 1491, il massimo organo di governo era costituito dall’assemblea generale degli iscritti le cui deliberazioni si intendevano approvate a maggioranza dei presenti purché questi fossero pari almeno ai due terzi dei collegiati. Gli iscritti sedevano in ordine di anzianità di ammissione al notariato (fatta salva la precedenza di consoli e consiglieri pro tempore). Ciascuno di essi poteva prendere la parola sugli argomenti all’ordine del giorno ma doveva astenersi dall’interrompere o disturbare l’intervento altrui […].
Gli organi amministrativi erano invece costituiti dal Consiglio, composto da otto membri eletti ogni anno nel mese di dicembre, e dai consoli, in numero di quattro sorteggiati tra sei nominativi precedentemente indicati dall’assemblea degli iscritti. L’età minima per l’accesso al consolato era fissata a trent’anni e la durata della carica era annuale. Nell’esercizio dei loro compiti i consoli potevano assumere impegni di spesa ed imporre taglie agli iscritti per somme non eccedenti le 25 lire imperiali.
I consiglieri ed i consoli erano i soli a poter presentare proposte di deliberazioni all’assemblea dei collegiati che doveva essere convocata dai consoli almeno quattro volte l’anno nei mesi di gennaio, marzo, giugno ed ottobre. Tutti gli iscritti erano tenuti a tributare loro obbedienza e rispetto, pena la sospensione dal Collegio per un biennio e il versamento di 20 soldi imperiali all’atto della riammissione “si poenitentia ducti”. Le funzioni di cancelleria, segreteria e tesoreria erano svolte da due canepari estratti a sorte ogni anno nel mese di dicembre con le stesse modalità dei consoli, di età maggiore di venticinque anni, tenuti a presentare idonea garanzia del corretto svolgimento della loro gestione e sottoposti a sindacato al termine del mandato che si concludeva con la consegna ai successori di libri e scritture contabili.
Ogni anno, nello stesso mese di dicembre in cui si rinnovavano le altre cariche venivano nominati anche un servitore e due rationatores et sindicatores incaricati delle verifiche sulla contabilità dei canepari. […]
Infine, due membri del Collegio venivano eletti ogni anno perché vigilassero sull’applicazione delle norme statutarie comunali e interne riguardanti l’esercizio del notariato in città e nel suo distretto. La loro nomina doveva essere confermata dal Consiglio degli anziani del Comune di Bergamo.
Una deliberazione del 5 febbraio 1492 autorizzò un comitato ristretto, formato da due consoli, tre o quattro consiglieri e venti collegiati, a gestire gli affari correnti del Collegio, eccetto però le nuove aggregazioni.
Nel corso del ‘500 e fino agli inizi del ‘600, alcune parti prese di cui purtroppo non conosciamo che l’oggetto (essendo andato perduto il relativo registro), riguardano l’istituzione di nuove cariche amministrative: il cancelliere (1504), la cui attività viene regolata da nuovi capitoli nel 1584 ed ancora nel 1609, l’esattore (1514), due conservatores ordinum Collegii et sindici da rinnovarsi annualmente (1579), il tesoriere, con mandato triennale (1603), due defensores che restavano in carica due anni col compito di intervenire, anche in giudizio, “ne iura Collegii quomodolibet laedantur” (1612).
A partire dal 1613, in seguito alle nuove disposizioni della Dominante circa la creazione dei notai, si procedette all’elezione del priore e dei quattro notai chiamati a far parte della commissione esaminatrice degli aspiranti al notariato. Allo stesso anno, e sempre in applicazione di nuove norme dell’autorità veneta (in questo caso la ducale 24 novembre 1612 “Pro archivi institutione”), risale la prima nomina dell’archivista, la cui attività fu regolata da ordini emanati dai rettori integrati nel 1636 da appositi capitoli approvati dal Collegio. […]
Per la particolare rilevanza della loro attività sulla formazione dell’archivio, ci si soffermerà con maggior attenzione sulle figure dell’archivista e del cancelliere. Scelto tra i collegiati, quest’ultimo era il consegnatario del sigillo e di tutti gli inventari, libri e scritture del Collegio, era tenuto a rogare qualsiasi istrumento fosse opportuno per l’ente ed a trascrivere entro tre giorni ogni sua deliberazione o atto nell’apposito libro. Doveva convocare l’assemblea degli iscritti una o più volte l’anno ma soprattutto a dicembre (mese nel quale si procedeva al rinnovo di molte cariche) e far sì che tra le attività di ordinaria amministrazione si provvedesse alle nomine dei colleghi da preporre alle diverse funzioni. Aveva inoltre il compito di intervenire alla creazione dei nuovi notai (che dal 1613 coincideva ormai con l’approbatio) dopo aver sorteggiato, alla presenza di uno dei consoli del Collegio, i nominativi dei tre giuristi chiamati a far parte della commissione esaminatrice e di vigilare affinché la creazione avvenisse nel rispetto delle procedure stabilite dagli statuti, ordini e buone consuetudini vigenti. Provvedeva poi alla riscossione della tassa dovuta dai candidati e all’annotazione sulla matricola del nuovo notaio curando che egli apponesse di proprio pugno il nome ed il segno prescelto.
Analogamente doveva fare in modo che le aggregazioni al Collegio avvenissero secondo quanto disposto dagli statuti, riscuotendo dagli aspiranti la somma di 53 lire imperiali a titolo di deposito e trascrivendo sull’apposito registro le informazioni assunte sul loro conto e i titoli presentati. Per evitare l’affievolirsi nel tempo della memoria di ordini e deliberazioni concernenti il governo del Collegio e far sì che tutti potessero rinvenirli facilmente, il cancelliere era tenuto a trascriverli seriatim in un libro apposito.
Spettavano al cancelliere, come si è detto più sopra, anche gli adempimenti relativi alla buona riuscita della processione del Corpus Domini e l’annotazione dei nominativi dei notai intervenuti e degli assenti. Infine egli doveva tenere il libro dei debitori del Collegio (del cui elenco dava pubblica lettura almeno una volta l’anno nell’assemblea degli iscritti) e adoperarsi perché venissero redenti i censi di cui esso era gravato. Modestissime integrazioni ai capitoli furono approvate con parte presa il 16 febbraio 1766: divieto di ricevere depositi di somme in denaro (incombenza spettante al tesoriere), di agire senza il preliminare consenso del priore, di portare carte e registri fuori dalla sede del Collegio.
In mancanza di specifiche disposizioni circa la durata del mandato (forse contenute in più antichi capitoli non pervenutici), l’elenco dei cancellieri succedutisi dal 1504 al 1636 fornitoci dal Benaglio suggerisce l’ipotesi che la carica fosse conferita a tempo indeterminato salvo rinuncia, morte dell’interessato o forse anche revoca.
Successivamente, dopo i due cancellierati vitalizi di Marco Antonio Benaglio (1636-1641) e di Bartolomeo Vailetti de Marchesiis (1641-1667), si deliberò che il cancelliere dovesse essere riconfermato annualmente.
La norma, introdotta evidentemente a maggior garanzia di un corretto esercizio delle delicate funzioni di cancelliere, non impedì al successore, Zaccaria Finardi, di rivestire tale incarico per oltre ventinove anni (1667-1696) e di ottenere addirittura che gli subentrasse Giovanni Battista Carrara, il successore da lui stesso designato, che lo aveva affiancato durante la malattia nell’ultimo anno di vita.
Se la tenuta delle scritture del Collegio era affidata al cancelliere, le funzioni dell’archivista riguardavano invece quello che venne correntemente denominato Archivio Civile o Generale, istituito con ducale 24 novembre 1612 perché vi trovassero idonea conservazione “istromenti originali, protocolli, imbreviature et filze et finalmente tutte le scritture publiche” dei notai deceduti di tutta la provincia e che non fossero regolarmente in consegna ad altro notaio.
Fu così che il podestà Pietro Paolo Battaglia ed il capitano Alvise Mocenigo, in data 16 novembre 1613 emanarono un’ordinanza in cui si incaricava il Collegio dei notai di individuare tra propri i iscritti una quaterna di nominativi tra quali i rettori stessi avrebbero scelto l’archivista. Alla scadenza del suo mandato, stabilito in un biennio, si sarebbe provveduto ad una nuova nomina con la stessa procedura, da attuarsi nel mese di dicembre.
L’archivista era tenuto a prendere in carico tutta la documentazione affidatagli sottoscrivendone l’inventario ed a consegnarla integralmente al proprio successore. L’importanza attribuita dalle autorità al problema della corretta gestione dell’archivio è anche rivelata dal fatto che in caso di contravvenzione al divieto di portare carte fuori sede o di affidarle ad altri (pur se all’interno dell’archivio) cui seguisse la perdita di qualche scrittura, l’archivista sarebbe stato privato dell’officio in perpetuo, multato della considerevole somma di 100 ducati e sottoposto perfino a “qu ellepene corporali che paressero alli illustrissimi signori rettori”.
A fronte di tale responsabilità, gli veniva offerta una percentuale variante dal venticinque al cinquanta per cento sulle entrate derivanti dalla “estrattione” delle scritture.
Anche il Collegio ne traeva entrate significative (pari ad un quarto dei citati proventi) ed ancor più era lecito attenderne con l’introduzione dei “Capitoli dell’archivista” approvati il 6 giugno 1636: “Non modicum enim decoris atque utilitatis incrementum Collegio proveniet ex eiusdem archivi recta administratione”.
In essi viene sottolineato l’obbligo di redigere ad ogni passaggio di consegne l’inventario della documentazione esistente in archivio e di inscrivervi quella via via acquisita, disponendo che copia dell’inventario si conservi anche presso il cancelliere del Collegio, cui è affidata una delle due chiavi dell’archivio. L’archivista dovrà inoltre tenere quotidianamente aggiornato il registro delle somme riscosse, versare la quota dovuta al tesoriere e farne rendiconti semestrali.
Affinché sia possibile esercitare regolarmente l’azione di recupero delle carte dei notai deceduti, egli annoterà su un apposito volume i nomi di tutti i notai attivi e quelli dei substituti presso cui siano depositati filze e protocolli di notai defunti. Verificandosi un decesso, curerà tutte le operazioni di riscontro delle scritture esistenti nell’abitazione del notaio nonché la loro consegna ad un collega o il trasferimento all’archivio.
La durata dell’incarico, inizialmente fissata in un biennio, divenne presto quadriennale poiché la riconferma per altri due anni, consentita con deliberazione 24 ottobre 1636, fu costantemente applicata.
Probabilmente questa specie di automatismo de facto incoraggiò qualche irregolarità […].
L’ormai pressoché inutile formalità della conferma fu comunque superata quando i rettori Carlo Antonio Gambara e Carlo Zenobio con proclama 24 gennaio 1715 portarono appunto a quattro anni la durata di ciascun mandato dell’archivista.
Per gli archivi di concentrazione minori, istituiti in diverse località del distretto, dove per la difficoltà di avvalersi di persone competenti la carica di archivista era tuttora vitalizia, si consentiva il permanere in servizio delle stesse persone che già la ricoprivano purché risultassero probe e capaci.
A fine secolo, nell’ambito di un “Piano concernente gli affari economici del Collegio” approvato il 28 luglio 1793, si delibererà “per vie più facilitare il pubblico servizio” di nominare provvisoriamente (e fino ad approvazione da parte del Senato della modifica alle disposizioni vigenti) non più un solo archivista ma due, con incarichi della durata di quattro e due anni, in modo da creare quell’alternanza nelle sostituzioni di fine mandato che garantisca la continuità dell’azione amministrativa da parte di personale sufficientemente esperto.

Complessi archivistici

Compilatori

  • Prima redazione: Schiavini Trezzi, Juanita (archivista)
  • Revisione: Dilda, Giovanni Luca (archivista)